Questo sito utilizza cookie tecnici. Cliccando sul pulsante Accetto oppure continuando la navigazione del sito, l'utente accetta l'utilizzo di tutti i cookie. Per maggiori informazioni, è possibile consultare l'informativa completa sulla privacy .

La pittura di Claudio Laudani ...Fra invenzione e tradizione.

 

Il deposito, il cumulo temporale, la vetustà dei suoi primi dipinti. Volti e corpi di donna, per lo più. Angolosi e sottili. In cui visceralità e possessione, sparate, nei dipinti della fase successiva - uterini e allucinatissimi - si insinuano con maggior circospezione dilatando e contraendo singoli dettagli come un veleno in razione prescritta. Sembrano estremamente maturi, quei quadri, e molto vecchi, ma non stilisticamente, o non soltanto. Sembrano molto vecchi come oggetti. Più li osservo e più mi sembrano vecchi come cose, in quanto cose. E’ voluto, mi dice lui. Non è solo un fatto di cromatismo, tipo di colori, vernici, riferimenti stilistici. E’ qualcosa di più che una tecnica. Forse potrei chiamarla una maniera, dice. Ma precisa, definita e personale, d’incrocio fra invenzione e tradizione.

 

Non so se capisco: di arte - pittura in particolare - non mi sono mai occupato; non nel senso dell’approntamento di un bagaglio che mi autorizzi a disquisire senza bluff circa la stratificazione storica di significati e pratiche riconducibili a un termine quale “maniera”. A me pare semplicemente si sia depositato molto tempo, in questi primi dipinti, come una coltre patinosa di polveri e unto, sedimentando, si fosse mescolata al lucido e ai medium distesi sul sostrato degli oli, saturandolo. Possiedono l’impurità acquisita, l’imbrunimento e l’obliterazione di cose immagazzinate, tenute in soffitta, nella stanza dei giochi, nei bauli, negl’interrati. Ed è bizzarro. Perché la preziosità inconsueta di cose già fruite e la familiarità estraniata di ciò che ha già avuto vita affiorano secondo una sorta di pre-visione, un deja-vù che se da un lato emerge senza brutalità, poco per volta, con definizione sempre maggiore, dall’altro disorienta come qualcosa che nel precisarsi alla coscienza, che in tanta parte è ricordo, smarrisca collocazione nella memoria - lo spazio, immagino, in cui si staglia il ricordo.

La storia, d’altro canto, anche la cosiddetta storia dell’arte, scorre in molteplici rivoli, più grandi e meno grandi, più visibili e meno visibili, l’alveo dei quali è popolato da immaginazioni che a vario titolo chiamiamo opere, testimonianze. Ma quest’idea di racconti che fluiscono scavando alvei grandi o piccoli, intrecciati o divergenti, nel letto dei quali restano concretamente custodite le immaginazioni degli uomini, si fonde con l’intuizione di una rispondenza fra il pervicace, involontario anacronismo del carattere del mio amico, il suo rapporto con i capolavori della tradizione e con ciò che attraverso la pittura mi pare faccia alle cose.

Benché conosca Claudio Laudani già da un anno, è soltanto dall’inizio dell’estate 2004 che prendo a frequentarlo con qualche assiduità, ma il suo alloggio padovano è già divenuto un traguardo del mio bighellonare quando, nel pieno dell’inverno - le giornate al lumicino e il freddo ormai appuntito - mi rendo conto di come le immagini che dipinge abbiano allargato dentro me, da un nucleo, un’area di calore: fino ad allora, emotivamente, ha prevalso qualcosa di diverso dal puro e semplice visivo; dal fatto si tratti per lo più di figure umane su sfondi tenebrosi, psichici, notturni e, a occhio e croce, piuttosto tragici. Ciò che fino ad allora mi ha impressionato è piuttosto un fatto di presenza, come se con gli occhi - la loro tenerissima, sensibilissima polpa (l’occhio-uovo rigonfio di Medusa) - abbia involontariamente sfiorato. Non sono mai stato, d’altronde, nella bottega di un artigiano, tanto meno nell’atelier di un’artista - e ho voglia di toccare. Probabilmente ciò che mi meraviglia dipende dalla mia scarsa consuetudine con un universo creativo totalmente manuale, con un modo di lavoro desueto e soprattutto con il divenire delle tele, il loro cambiare, aggiustarsi, proliferare, coagulare, cristallizzarsi per decomporsi nuovamente, il loro - mi si scusi il giochino - “prendere morte”. E’ una frase, questa, che non ricordo quando né da quanto, mi si è stampata nel cervello e, non sapendo esattamente cosa significhi, un po’ mi assilla. Nei suoi quadri, di morte - anche quando viene rappresentata la natalità - se ne trova in effetti a più non posso: feti che penzolano, femminini squarciati e fumiganti, cristi vulnerati che urlano, teste che esplodono; eppure, per come sento, non si tratta semplicemente di illustrazioni, rappresentazioni, evocazioni della morte, quanto di una sua restituzione all’esistenza, alla sfera della vita: una sorta di conferimento in durata - più che in mera caducità o deperibilità; un tentativo, un po’ misterioso, di denormalizzazione attraverso un modo di guardare e di fare che sembra largire alle cose una malattia, un decorso. Quanto poi alla storia o alle storie dell’arte, il corso nel greto del quale si è sedimentata l’immaginazione riverberante in quegli oggetti sembra oltre che marginale anche separato - com’è separato il sognare dal vivere. Un pomeriggio, forse una notte di un altro secolo. Di una vicenda episodica, latente, parallela a quella dell’universo diurno. Claudio, penso, è quel che si dice un pittore figurativo e buona parte della sua produzione è di oggetto sacro. I riferimenti, le citazioni, le suggestioni tratte da Leonardo, Giorgione, Antonello, Tiziano, Caravaggio, Rembrandt sono consistenti e reiterate, ma al tempo stesso mi paiono immaginarie, quasi il Leonardo, l’Antonello il Giorgione di volta in volta celebrati fossero esponenti di una perturbante fantastoria dell’arte che, tuttavia, mi è oltremodo familiare. Sicché mi domando dove peschi il suo amo. In quale - oltre alla sua, intima, naturalmente - storia. A quale zona della mia immaginazione, volente o nolente, attinga. E perché ciò che fa continui a interrogarmi sul tempo.

 

C’è la neve, ricordo. Ed è notte - lavoro in un cinema - quando Claudio inizia a farmi visita. Abbassata la saracinesca andiamo a bere da qualche parte e, di quando in quando, avendo ancora qualcosa da dirci, mi invita per un ultimo bicchierino. Stiamo insomma diventando amici, ma non sempre è facile comprenderne i discorsi. Abbiamo avuto vite molto differenti, percorsi incommensurabili. E’ stato sposato, si è occupato di fotografia, si è formato, ancora ragazzo, nella bottega di un grande scultore del ferro. Non ci sono compagnie adolescenziali nella sua memoria, morose iniziatiche - ha sposato la prima donna della vita - né discoteche, chitarre, canzonette, film di cassetta, fiction o programmi televisivi d’altro genere. Nessun giovanilismo, nessun mito in comune, nessuna condivisione o reale contrapposizione circa una parte politica, nessuna inesauribile gioventù - di cui, dal canto mio, non riesco a disintossicarmi se non accogliendo, a 38 anni suonati, una dilagante disaffezione quale approdo naturale alla cosiddetta età adulta. E’ fuori secolo (non saprei come esprimermi altrimenti: sta in questo tempo senza appartenervi), e sentendo forse per questo motivo più aspramente di me i guasti epocali che un sociologo riassumerebbe con il termine unsichernheit, patisce l’isolamento, il fatto di non avere una casa, una moglie, una famiglia, una professione, un circuito amicale e affettivo, di vivere in una città che non è la sua e che non ha veramente scelto essendo stato in qualche modo espulso da quella di provenienza. La passione - ciò che io sento di avere smarrito - lo salva, dice, ma lo danna al contempo allontanandolo dal mondo; e mi racconta di come, nell’abbandono, specie con il buio, la concretezza degli edifici, degli oggetti nello spazio, dello stesso cielo sopra i comignoli sembri rapprendersi, non offrire più alcun riferimento alla congenita precarietà dell’essere umano; di come il mondo solidifichi, seccandosi d’ogni clemenza, trasformando in meri pezzi di corpo, o meglio, di fisico, gli stessi volti delle persone - delle donne in particolare, poiché i volti delle donne come spazio epifanico della bellezza, sono l’oggetto privilegiato della sua esplorazione - lasciando trasparire la realtà durissima di un tempo vuoto, finto, miserabile e crudele. Non sono molti i pittori della tarda modernità e della contemporaneità ai quali si sente affine o che ritenga seriamente in grado di dirgli qualcosa; ricorrono i nomi di Bacon e di Freud, racconta di essersi recato al Santo a studiare Annigoni, ma gli sta a cuore la tradizione, e nient’affatto in senso semplicemente pittorico: c’è in questa inclinazione qualcosa di anticontemporaneo, ammette, che stride fragorosamente con la sua situazione materiale e spirituale, così tipicamente contingente. Studia le metodologie di produzione dei colori (mi descrive le caratteristiche dell’olio emplastico al litargirio utilizzato da De Chirico), l’alchimia dei materiali e dei pigmenti, spiega come sulla trasmissione di quei saperi sia abbattuta un’alluvione, una specie di Vajont passando fulmineamente, in un suo tipico modo - che mi coglie ogni volta di sorpresa - a una rima o a un frammento, magari di Dante Alighieri, in cui immagina di individuare, per analogia, indicazioni afferenti l’ottenimento di ciò che sperimenta in alcuni quadri producendo, per esempio, una sorta di spessore vetroso. “La luce penetra e risplende” cita, e con ciò tenta anche di abbozzare una risposta alle strane domande che gli faccio sul tempo, la tradizione, morte, la cosalità (sic), di ciò che vedo disseminato ovunque, nella sua casa. Esistono cose che non sono nuove? Che non lo sono mai? Che non sono nuove, pur venendo alla luce, nascendo? Cioè le tue cose…, dico. Devo apparire molto buffo, enormemente goffo. Non riesco a concludere le frasi e provo pudore a dirgli ciò che mi pare lui faccia continuamente, anche quando dipinge levità chagalliane. Il fatto è che le cose di Claudio prima che come immagini dipinte mi si offrono, appunto, come cose. Per questo motivo - più che per questioni di stile (di cui non so niente) - non aderiscono all’Epoca. Le cose un tempo dovevano avere una presenza più forte di quella che hanno adesso, e in modo particolare quelle la cui ragione d’essere era la bellezza; le persone investivano affettivamente il mondo, vi si legavano, e il mondo, che era soprattutto un mondo di cose e di legami con le cose, era a sua volta più cosa di quanto esso appaia in un tempo quale il nostro, fatto di relazioni e connettività, popolato in via esclusiva da riproduzioni, in cui la stessa bellezza è riprodotta, burocratizzata, pre-sentita, sottratta all’attimo. Il nostro è il tempo della tecnica. Vale a dire della riproduzione. E dell’estetica pervasiva. Un tempo che rifila in technicolor e dolby surround ogni passato e ogni futuro alla fittizia eternità di un attuale dilatato per bulimia, coestensivo alla sua stessa rappresentazione, la cui frontiera e il cui fascino risiedono nella sinistra consonanza di totale libertà espressiva e capillare subordinazione al medesimo potere - appunto: la tecnica. Dev’esserci stato un tempo differente con il quale, il mio amico, in qualche modo, sta in contiguità; in cui le stesse immagini erano cose, vecchie nascendo, cioè mortali e, di conseguenza, consistenti, presenti - vere. Le cose erano cose non tanto perché, com’è ovvio, fossero caduche e deperibili, ma perché avevano la morte, cioè, oltre alla parte discendente, della caducità e della deperibilità, anche la parte, per così dire, ascendente. La morte contiene tutto il ciclo, altrimenti non è morte e le cose, un tempo, continuavano a morire. Sul decorso e la vecchiaia non erano apposti codici con data di scadenza; e quelle fra esse la cui ragione d’essere risiedeva, sia pur strumentalmente, nella bellezza, ammalavano di tempo così come ammala di tempo un amore nel momento stesso in cui ci si accorge che c’è. La delusione che provo quando vedo film sugli antichi romani come, per esempio, Il gladiatore è che la Roma del 180 dc, ricostruita a tratti in modo magnifico, non ha vecchiaia. Persino le porzioni più recenti, spettacolari di Manhattan - spettacolari in senso letterale - inglobano tempo. Tuttavia gli artisti immancabilmente seriali al soldo dei mercanti e i pubblicitari e la pletora sgobbante alla proliferazione della Cornice Cognitiva questo lo sa benissimo, da un pezzo. Esiste, per altro, un feticismo del ricordo in busta di plastica e scopino antipolvere. Sufficientemente personale, per essere ricordo. Sufficientemente condiviso per trovare adeguata ubicazione nella collezione della memoria. Ma qui non ci sono giochetti del genere. Non mi trovo al cospetto di una simulazione, al voler fare apparire vecchio ciò che vecchio non è, né può essere. Benché Claudio dica si tratti di effetti voluti, non sono al cospetto di un equivalente dei Levi’s jeans anti-form. Nel non nuovo, oltre che nel non essere novità, le cose di Claudio instaurano con l’epoca un rapporto, e per questa ragione - qualsiasi cosa ciò significhi - la loro consistenza e la loro presenza insistono, anzi incombono, con tanta  intensità. Qualcosa che tocca, gli dico. Che sporge. E che non solo si offre allo sguardo, ma guarda - specie quando stai di spalle! E’ in questa qualità, in questa sorta di corresponsione, che intuisco il sacro. In questo “legare”.

 

Oltre che di pignatte posate bicchieri tazzine cenere quaderni fogli pennelli piatti di carta chiazzati di colore e libri, l’alloggio di Claudio straripa sempre più dei suoi quadri, sia finiti che appena abbozzati. Frammisto a quello del cibo e dei sigari - in un sudiciume che conosco perfettamente e, semplicemente, adoro - riconosco l’odore di trementina e lacche, tinture ed essiccanti, oli e colle. Attaccati alla porta e alle pareti svolazzano foglietti con citazioni venerande e riproduzioni fotografiche di capolavori dell’arte. La Madonna con ramarro, sulla cui superficie Claudio ha significativamente trascritto le operazioni di coomologia del matematico berlinese Alexander Grothendieck, costituisce un’investigazione appassionata della celeberrima madonna di Antonello da Messina, dell’algebra sottesa a quella bellezza e della relazione possibile fra una bellezza carnale e la matematica congetturale di cui probabilmente si occuperebbe un odierno Antonello; ma sebbene la “copia” sia ormai da mesi ultimata e la sua produzione, per tematiche e tecniche, sia progredita, l’originale continua a campeggiare, circondato da appunti, schizzi a matita e altre riproduzioni fotografiche sul retro della porta d’ingresso, a testimonianza di una riflessione e di uno stupore che l’esperimento pittorico non ha consumato. In questo periodo nelle nostre chiacchierate fanno spesso capolino considerazioni intorno all’essenza dell’immagine oggi imperante, alla dittatura da essa instaurata e al servizio che tale immagine - fotografica, cinematografica, virtuale - rende al potere. Attribuendo all’immagine pittorica valenze “resistenziali”, Claudio le consegna anche un primato che si precisa nell’attuazione, se non addirittura tout court nell’invenzione di una matematica - intesa prima che come linguaggio come categoria dello spirito: quella che maggiormente avvicina gli uomini alla purezza della mente divina. Se Antonello trascende la bellezza di un volto per farne cifra celeste, l’immagine oggi imperante sembra invece ricreare il reale con effetti speciali, “di realtà”, secondo una simulazione estetistica tendente a una sorta di estasi cosmetica. E’ soltanto perforando questa crosta che la dimensione tellurica in cui accade l’incontro terribile, struggente, fra “non più vivi”, rappresentato, in particolare, ne L’abbraccio, può essere colta. Si tratta del luogo interno, psichico, disintegrato, in cui è ancora possibile incrociare i corpi - e non il loro doppio cosmetico: i fisici - e le cose viventi cui siamo legati, che amiamo o abbiamo amato; forse semplicemente il territorio in cui, oltre l’immagine del mondo, giace ciò che di esso rimane. E’ l’inferno del reale. In questa sorta di inabissamento mi è molto meno chiaro il ruolo giocato dalla matematica; a volte penso si tratti soltanto di un miraggio, oppure di una bussola rotta. Mi rendo conto, d’altronde, di quanto possa essere difficile provare a tradurre concetti e suggestioni da tempo acquisite, ma lontane anni luce dalle normali possibilità di ricezione di un comune mortale. E’ tuttavia anche attraverso tale costante tensione esplicativa che l’altezza dell’impegno e l’urgenza inventiva di questa pittura mi appaiono in una luce di commovente autenticità:  contro l’attuale conformità fra la natura dell’immagine dominante e quella del nostro guardare - del nostro stesso abitare il mondo - essa tenta di colmare una doppia, tremenda dismisura: quella di un deficit spirituale, da un lato; e di un deficit in realtà, dall’altro.

 

E’ sera e la brezza settembrina entra nella stanza dalla finestra che dà sulla strada, muovendo appena le tende. Ha piovuto, fra un minuto andrò a lavorare. Claudio è assorto, di spalle. Sta contemplando la Madonna di Antonello, appesa alla porta. Abbiamo bevuto il caffè.  Io guardo invece la Madonna con ramarro. Il risultato finale, penso, osservandola, difficilmente troverebbe collocazione in qualcosa di assimilabile a un proseguimento della storia dell’arte classica e, ovviamente, meno che mai in un suo analogo relativo all’arte contemporanea. Potrebbe trovarla in uno di quei miei rivoli secondari, di quelle storie dell’arte devianti e carsiche, ma - ne sono ormai certo - fondamentalmente immaginarie. Quando ho già visto, questa cosa?, dove?, l’ho vista veramente o, piuttosto, l’ho immaginata?, e com’è possibile, se l’ho immaginata, lui l’abbia realizzata in modo tale che io la riconosca? Se a domande di questo tipo continuo a non trovare risposta, l’adesione e l’amore di Claudio per un dipinto - e ce ne sono, naturalmente, moltissimi altri; direi anzi che ci sono esclusivamente quadri d’epoca classica, soprattutto del quattro e del cinquecento - così importante e geometrico quale quello di Antonello, conferma una genuina devozione per la tradizione, alla quale mi pare lui letteralmente attinga. D’un tratto prende un piattino di plastica, vi spalma un po’ di colore e su un foglio, da un blocco, traccia un paio di segni. Quando Claudio torna ad alzare lo sguardo, mostrandomi la resa cangiante del colore appena steso, racconta una volta ancora di una tradizione smarrita, impossibile da approssimare, irrecuperabile sul piano umano: da inventare. Tutte cose che già so. Ma è in quel momento, in quel suo immergersi per riemergere con l’intuizione di una correlazione inattesa fra universi reciprocamente perduti, che torna nella mia mente l’immagine più antica di lui, pittore: quella di un pescatore che, affacciandosi sull’acqua di un rivo, vi immerga la mano traendo gli oggetti corrosi, dimenticati, coperti di sedimenti, che custodirono alcune fra le più belle immaginazioni degli uomini.